Intorno alla metà dell'XI secolo, dopo la conquista di Cosenza e dei
centri limitrofi (1055), e dopo l’unificazione politica della regione
(1060), «Roberto il Guiscardo – scrive Filippo Burgarella – poté
liberare il Mezzogiorno dai Bizantini per sostituirsi a essi e per
sostituire la Chiesa greca d’obbedienza costantinopolitana e il
monachesimo greco con la chiesa latina d’obbedienza pontificia e romana
e il monachesimo latino e benedettino»[1]. Il vescovado di Cosenza – cui
facevano capo i territori limitrofi alla città, inclusa verosimilmente
Laurignano – che fino al 989 i papi attribuirono agli arcivescovi di
Salerno come sedi loro suffraganee, tra la fine dell'XI e l'inizio del
XII secolo se ne staccò rientrando nella nuova distrettuazione diocesana
messa a punto dai nuovi conquistatori nordici[2].
Consolidatisi saldamente alla guida del Regnum Siciliae, i sovrani
normanni[3] «ridisegnarono la geografia ecclesiastica del Mezzogiorno
d'Italia»[4] e, con la benedizione della Sede Apostolica, attuarono una
politica ecclesiastica improntata alla cautela, senza traumatici
sconvolgimenti e con studiata parsimonia, che erose lentamente spazi
vitali ai monaci di rito greco e che trovò piena realizzazione nella
concessione di ampie forme di giurisdizione ai potenti monasteri
benedettini della valle del Crati, cui venne delegato localmente il
dominio e lo sfruttamento delle risorse del territorio[5]. Le imponenti
strutture religiose che costruirono in Val di Crati e lungo la via
Popilia divennero gli avamposti del nuovo "processo di latinizzazione",
veri e propri «instrumenta regni» capaci di imporre il potere feudale ma
anche di irradiare una nuova spiritualità e messaggi di fede di grande
richiamo, sotto l'insegna della Chiesa di Roma.
Il contado di Laurignano, che proprio sotto la monarchia normanna
assunse una precisa confinazione territoriale ed una sua identità
giuridica, delimitato dai fiumi Busento e Jassa, a ridosso della città e
attraversato dall'antica consolare romana, non rimase estraneo a questo
cambiamento radicale nella riorganizzazione diocesana dei territori
conquistati, ma attirò gli interessi delle badie benedettine e
cistercensi della Val di Crati, le quali dettero vita sul territorio a
complesse dinamiche monastiche. Lo stanziamento dei Benedettini, i
«monaci neri», nelle zone depresse e disabitate, dominate dalla selva e
dall’incolto, favorì il progressivo ripopolamento e la ricostruzione del
tessuto connettivo del territorio[6].
La Sambucina di Luzzi, tra la fine del XII e gli inizi del secolo
successivo, durante l'abbaziato di Luca Campano, per esplicare
compiutamente il labor manuum riconosciuto e tutelato dai privilegi
pontifici e sovrani, si adoperò costantemente per acquisire terreni
lungo il corso del Crati e dei suoi affluenti, compresi il Busento e lo
Jassa. Nel contempo tese ad utilizzare al meglio le risorse mediante
l’incanalamento delle acque per alimentare i mulini[7]. Nel 1208, con un
diploma emanato da Palermo, l’imperatore Federico II concesse «a
Bernardo abate di S. Maria della Sambucina e ai suoi successori un feudo
in Cosenza, già di Palagano da Venosa, rimasto del regio demanio,
consistente nelle popolazioni rurali e in alcune terre incamerate dal
fisco, in un molino sul fiume Busento e in un terreno da coltura
nell’agro di Cosenza»[8]. Il terreno offerto al venerabile abate era
confinante con la «viam puplicam» e con la proprietà di Guglielmo, «filii
iudicis Arnoni» di Laurignano. Lo stesso feudo è riportato in un altro
documento rogato a Cosenza nel gennaio del 1209[9]. Le fonti
documentarie attestano che sin dal XIII secolo anche il cenobio matinese
di S. Marco Argentano esercitò la sua giurisdizione su numerosi «molendina
aquarum» dislocati lungo il corso del Busento[10]. Una pergamena del
1202 pubblicata dal Pratesi ci dà notizia di due mulini «in domo una in
flumine Basentii»[11]. I monasteri Cistercensi, forti della protezione
imperiale e di quella apostolica, godettero di ampia autonomia che
consentì loro di elevarsi a modello spirituale e culturale delle
comunità rurali[12]. Re e grandi signori puntavano sui monasteri come
centri religiosi di preghiera, aziende agricole, sedi di espansione e di
rafforzamento politico sul territorio[13].
Sotto la guida illuminata di Bernardo di Clairvaux (1112), la
congregazione cistercense ricevette un notevole impulso, diffondendosi
entro i confini del mondo cristiano attraverso il caratteristico sistema
delle filiazioni. Dediti più all'agricoltura e all'allevamento del
bestiame che non allo studio, i «monaci bianchi» limitarono l'ufficio
liturgico e si specializzarono in particolare nel disboscamento e nella
bonifica di terre paludose, perfezionando i sistemi per imbrigliare le
acque. Tuttavia, non trascurarono mai l'esplicito e consapevole
desiderio di un ritorno alla stretta osservanza della Regola
benedettina, alla sua rectitudo e ad un profondo anelito verso la
penitenza e la santità[14].
Terre e uomini costituivano gli elementi indispensabili per l'esistenza
di un qualsiasi monastero[15]. L'Ordine cistercense istituì la figura
del converso, la quale designava i laici illetterati, una categoria di
religiosi che attendeva al disbrigo degli affari economici delle
fondazioni e che, vincolati da tutti gli obblighi fondamentali della
vita religiosa eccetto l’Ufficio Divino, svolgevano i servizi più umili
insieme ad assai più ridotte prestazioni cultuali[16]. Le esigenze
materiali e la diffusa indigenza collegavano vasti strati della società
al chiostro, determinando un riassetto della stessa famiglia monastica.
Intorno ai monasteri titolari di aziende agricole regolate dalle
consuetudini feudali, gravitava un notevole numero di villani, di
rustici, di angararii, di censiles, di mercenari, di servi e ancillae,
legati al duplice vincolo della fede e della terra[17]. Non abbiamo a
disposizione testimonianze al riguardo, ma è verosimile che queste
laboriose categorie di laboratores agissero anche nel territorio di
Laurignano, in particolare nelle fertili aree a ridosso del Busento e
dello Jassa, al servizio dei mulini e delle piccole gràngie obbedienti
ai monasteri della Val di Crati di rango più elevato.
La località Granci, posta lungo le sponde del Busento, sul versante del
crinale che guarda verso Carolei, attestata nelle fonti documentarie del
'700, è un toponimo mutuato per l'appunto dal termine grància o gràngia
(latino popolare granìca, derivazione di granum "grano") che, come è
noto, designava «l'azienda agricola cistercense»[18]. La persistenza nel
tempo di una località con questo nome costituisce una conferma sicura al
fatto che l'intera zona fosse un possedimento controllato da qualche
monastero della Val di Crati. Nelle gràngie si conservavano il raccolto
e gli attrezzi agricoli, ed erano governate dal cellelario o monaco "granciere",
in rappresentanza dell'abate. Augusto Placanica ha scritto che la
gràngia «indicava un complesso di edifici rurali in zona pertinente ad
un'abbazia, destinato ad essere centro della raccolta, poi anche
dell'amministrazione, delle derrate alimentari prodotte nel territorio
dipendente»[19]. Secondo le norme cistercensi, le gràngie, per essere
facilmente controllate, dovevano distare dall’abbazia non più di una
giornata di cammino, sicché i fratelli conversi potevano rientrare la
domenica al monastero per gli uffici religiosi.
Oltre ai cenobi della Sambucina e della Matina anche il monastero di S.
Maria di Corazzo – in diocesi di Martirano – possedeva mulini lungo il
Busento[20]. Lo sviluppo di queste strutture economiche lungo i due
corsi d'acqua che delimitano il territorio di Laurignano si colloca tra
il XII e il XIV secolo, favorito dall'attività dei monaci, dalla
tracciatura di una rete viaria funzionale al territorio e dalle opere di
dissodamento e di bonifica dei terreni incolti: interventi strettamente
connessi fra di loro, che concorreranno nei secoli alla graduale
definizione del territorio e del paesaggio agrario laurignanese. Alla
diffusione dei mulini era legata la messa a coltura, il popolamento e la
conseguente valorizzazione fondiaria dei terreni. Le fonti documentarie
qui appena richiamate, la solitudine dei luoghi – adatti alla pratica
ascetica, all'abbandono e al disprezzo del mondo (fuga mundi, contemptus
mundi) – le acque dei due fiumi – utilizzate sia per l’irrigazione
degli orti sia per l’attivazione delle macine – la toponomastica delle
zone, sono tutti tasselli significativi a conferma dell'intensa attività
monastica dispiegatasi sul territorio laurignanese nei secoli centrali
del Medioevo.
Con l'avvento normanno è probabile che il cenobio bizantino di S.
Basilio, cui abbiamo fatto cenno nelle pagine precedenti, sia passato ai
monaci di rito latino insediatisi nelle badie della Val di Crati. Ciò è
ancora più verosimile se si considera che i monaci provenienti dalla
Francia «iniziarono la loro attività in Calabria alla metà del sec. XII,
senza fondare nessun nuovo monastero, ma riformando quelli benedettini e
basiliani preesistenti». Gli stessi Florensi, attivi sul territorio
laurignanese, alla morte di Gioacchino (1202) acquisirono diversi
monasteri basiliani e benedettini.
Attorno a questi elementi si è realizzata nel tempo la crescita civile e
demografica della comunità locale, stimolata dall'ordo novus per
eccellenza, quello di Cîteaux[21], che funse da referente principale
delle masse contadine del circondario. Fattori come l'estrema debolezza
delle strutture di inquadramento civile, accanto alla latitanza delle
autorità centrali e al profondo svilimento della figura del vescovo,
invischiato nelle lotte dei potentati locali di cui esso stesso faceva
parte, tra XI e XII secolo, contribuirono ad enfatizzare e amplificare
il ruolo del monaco e del monastero[22]. L'ombra del chiostro, inoltre,
esprimeva il fascino di un'alternativa appagante al disordine sociale
dell'epoca, garantendo una capacità di formazione culturale e di
organizzazione economica e civile del territorio.
Voluta dal Guiscardo lungo l'iter Calabriae, l'abbazia di S. Maria della
Matina acquisì la dimensione di struttura economica e feudale di primo
piano. Legata intrinsecamente all'abbazia normanna di Saint-Évrioul d'Ouche,
da dove provenivano numerosi monaci, si caratterizzò anche come preciso
punto di riferimento della pietà popolare della Val di Crati[23]. Che
l'abbazia della Matina facesse sentire il suo peso nel contado
laurignanese già al tempo dei benedettini ci è confermato da un'altra
significativa attestazione: il nome Lauriniano compare per la prima
volta proprio in età normanna, nelle carte latine della badia
argentanese. Il documento, come notato in precedenza, attesta la
donazione di alcuni beni che un certo «Ursus de Laurin(iano) in lecto
infirmitatis iacens, sana mente et sincera voluntate» offrì a Stefano,
abate di S. Maria della Matina[24], per la salvezza della propria anima.
I congiunti, presenti e consenzienti, confermarono la donazione e, a
loro volta, mossi dalla medesima istanza salvifica, concessero altre
terre al monastero[25]. Purtroppo, non è dato sapere in quale località
venne redatto il documento della donatio pro anima, se a Laurignano, a
S. Marco Argentano o altrove. L'infermità del donatore lascia supporre
che la concessione fu sottoscritta a Laurignano, forse in presenza dei
rappresentanti della badia matinese che gravitavano in loco.
In epoca sveva il controllo giurisdizionale dei monasteri di Sant’Angelo
de Frigilo, della Sambucina e della Matina su vaste estensioni
territoriali andò sempre più dilatandosi e rafforzandosi, grazie ai
numerosi privilegi concessi da Federico II e dai suoi funzionari[26]. La
Sambucina con le sue dipendenze, l'abbazia di Corazzo e la Matina
acquisirono «splendore e potenza»[27] attraverso tutta una politica di
possedimenti, di concessioni, di “obbedienze”, che comportava
necessariamente un costante e intenso movimento tra la badia e queste
“dipendenze”[28]. In particolare la Matina, con la sua studiata
posizione lungo la via Popilia e con la potenza politico-religiosa
attribuitale, permise il frequente spostamento di uomini, di idee, di
culti e forme religiose della zona italo-greca del Mercurion verso
quella latina della Val di Crati[29].
Che l'abbazia di Corazzo esercitasse la sua influenza nei dintorni di
Cosenza e nell'intera diocesi ci è confermato da diverse attestazioni
documentarie. Nel novembre del 1230, per esempio, papa Gregorio IX inviò
una lettera all'arcivescovo di Cosenza e ai suoi suffraganei esortando i
religiosi di quella provincia a proteggere e a difendere il monastero di
Corazzo[30]. I confini di questi importanti monasteri erano scanditi da
fiumi e fiumare che alimentavano la loro economia e caratterizzavano la
idronimia e la toponomastica delle contrade[31]. Nel contado
laurignanese i nomi di alcune località – Molino Irto, Jassa, S. Pietro,
S. Maria, Acqua di Calci – per la loro persistenza nella lunga durata,
ci offrono elementi assai significativi riguardo alle dinamiche
economiche e devozionali dispiegatesi lungo il Busento e lo Jassa.
Sotto la reggenza degli Staufen i monasteri Cistercensi e Florensi
beneficiarono della munificenza della Corte nei loro riguardi e di
numerosi privilegi. In questo periodo i Cistercensi furono i principali
referenti della politica ecclesiastica e della munificenza dello «stupor
mundi», il quale, sin dai primi tempi della sua incoronazione, indirizzò
al Capitolo Generale degli abati Cistercensi la richiesta di essere
accolto nel loro Ordine[32]. E quando, in nome della fede cristiana, si
trattava di coronare con il successo le imprese militari più ardite, il
sovrano svevo non disdegnava di affidarsi al loro fervoroso zelo e alla
loro intercessione. Nel mese di agosto 1215 Federico esortò gli «athletae
Cristhi» a pregare per il suo progetto di liberazione della Terra
Santa[33].
Provenienti dalla Francia e dalla Normandia, i «monaci bianchi»[34]
(l'abito bianco simboleggiava l'umiltà e la purezza) iniziarono la loro
attività riformando i monasteri benedettini e basiliani preesistenti,
senza fondarne ex-novo[35]. «Nel variegato panorama delle vicende
religiose che hanno segnato la storia della Calabria in età medioevale –
ha ben osservato Pietro De Leo – la presenza diffusa ed attiva dei
monaci cisterciensi ha avuto un ruolo considerevole»[36]. Del resto, la
realtà monastica costituiva una presenza troppo consistente e
distribuita capillarmente sul territorio perché non diventasse anche uno
strumento irrinunciabile nelle dispute per l'accaparramento del potere
locale. Non a caso lo stanziamento dei Cistercensi nel Mezzogiorno
d’Italia fu voluto da Ruggero II, il re normanno che li chiamò più per
calcolo politico che per zelo religioso[37].
Nel contado di Lauriniano gli abati dei monasteri citati esercitarono il
loro enorme potere, una sorta di feudalizzazione che poneva queste
strutture ecclesiastiche sullo stesso piano delle signorie territoriali
dell'epoca: Orso e Arnone in età normanno-sveva; Ugolotta de Lauriniano,
funzionario della corte federiciana, in età sveva; i Firrao sotto gli
Angioini.
Le risorse naturali che offriva il territorio e la generosa munificenza
dei possidenti laurignanesi, a metà del XIII secolo, non erano ignoti al
monastero cistercense di S. Angelo di Frigilo. Uno «scriptum
concessionis» datato dicembre 1248, rogato a Dipignano «in presentia
Michaelis de Gemmitanis imperialis iudicis Dipiniani», ci informa che
una certa Sibilla, vedova di Arnone de Lauratiano [Lauriniano], e Bruna,
figlia del predetto Arnone, cedettero a Gualtiero da Cosenza i propri
diritti su nove giumenti di loro proprietà che Arnone dette a custodire
al monastero frigillese[38]. Nel 1224 Federico prese sotto la sua
protezione il monastero di S. Angelo di Frigilo, confermandone i
possessi e concedendogli il libero pascolo per gli armenti nelle tenute
demaniali di Cosenza e dintorni[39]. Nel 1202 l'insediamento cistercense
in Sant'Angelo de Frigilo venne affrancato dalla Sambucina ed elevato
alla dignità di monasterium capitaneum[40].
Intorno alla metà del XV secolo il Regesto Vaticano per la Calabria ci
ragguaglia sui contatti tra la badia di S. Maria di Corazzo, in diocesi
di Martirano, e Laurignano, quindi sull'assidua frequentazione delle
nostre zone da parte dei monaci che vi dimoravano. Il 5 febbraio 1440,
sotto papa Eugenio IV, «abbati monasterii S. Maria de Curatio (...)
Marturanem dioc., mandat ut Robertino Quatuormano, clerico cusentin.,
provideat de canonicatu ecclesiae cusentin. et de parochiali S.
Salvatoris de Laureniano, vac. per promotionem Waliotti, electi Crotonem,
que eas tenebat tempore suae promotionis ad dictam ecclesiam»[41]. In un
altro documento del 28 agosto 1460, pubblicato nel Regesto Vaticano per
la Calabria, oltre all'assegnazione del canonicato e della prebenda di
S. Salvatore di Laurignano, è riportata in calce l'attestazione
«Archiepiscopo Creten. et Episcopo Cotronem ac. Abbadi monasterii S.
Mariae de Curatio, dioc. Martiranum»[42].
Grazie alle ingenti donazioni e privilegi ricevuti dai Normanni,
l'abbazia di Corazzo acquisì all'epoca una straordinaria importanza, sia
spirituale che economica, divenendo una delle istituzioni monastiche più
ricche e famose della Calabria medievale, oltre che dimora e luogo di
soggiorno per alcune tra le personalità di maggiore caratura nella
storia regionale. Tra il 1177-1187 vi si trasferì dalla Sambucina
Gioacchino da Fiore, il quale ne assunse l'incarico di abate su
designazione degli stessi monaci[43]. Qualche secolo più tardi il
monastero ospitò anche Bernardino Telesio, protagonista nella seconda
metà del XVI secolo di numerose transazioni di compravendita di case e
proprietà fondiarie site nel territorio di Laurignano[44].
La permanenza del celebre filosofo cosentino nella quiete dei chiostri
corazzesi, dove trovò forse l'ispirazione per scrivere il Contra
peripatheticos[45], coinvolse di riflesso anche Laurignano, attraverso
il parroco dell'epoca. Un documento del 14 settembre 1583, rogato a
Cosenza dal notaio Plantedi, ci informa che il reverendo Don Ferdinando
Miranda, parroco di S. Oliverio di Laurignano, confermò una
dichiarazione da lui resa e sottoscritta il 17 aprile 1581 circa la
sorte dei grani raccolti dal magnifico Bernardino Telesio nella badia di
Corazzo nel 1569, anno in cui ne lasciò l'affitto ed a proposito di
altre questioni riguardanti il filosofo ed i suoi figli contro i signori
Sambiase[46]. Lo stesso Miranda, il 26 febbraio 1569, era stato nominato
dal Telesio procuratore per l'amministrazione di tutti i suoi beni[47].
Purtroppo, l'esiguità e la frammentarietà della documentazione
superstite non ci consente di indagare in profondità sui rapporti tra
queste importanti istituzioni monastiche e il potere pubblico della
Laurignano del tempo o con la comunità locale, né ci dà la possibilità
di comprendere esaurientemente come e se chierici e monaci esplicassero
la loro ufficiatura liturgica e il loro apostolato in seno al piccolo
casale. Non sappiamo neppure dell'esistenza di altre presenze monastiche
e conventuali nel contado laurignanese tra il XII e il XV secolo.
Ciò che possiamo affermare con sicurezza è che nell'arco temporale qui
appena accennato, Benedettini, Cistercensi e, soprattutto, Florensi –
come presto si vedrà – scandirono i ritmi della quotidianità della
popolazione laurignanese e del circondario, composta in gran parte da
pastori e contadini asserviti al potere del dominus di turno, estranei a
qualsiasi anelito culturale o economico, lontani dal riverbero della
grande politica. Un microcosmo, insomma, che intrecciò saldamente la sua
vicenda storica con gli interessi economici e religiosi di questo
monachesimo rurale di cui seguì la parabola[48].
Oltre all'attività manuale, i monaci Cistercensi cercavano il "deserto"
inteso non come «luogo privilegiato per una compiaciuta ascesi
individuale, ma come contesto per impiantare una comunità monastica
lontano dal mondo (...), impegnata a vivere sino in fondo i valori
autentici della Regola di san Benedetto»[49]. La scelta monastica
reclamava un rapporto privilegiato con l’Assoluto. L’insegna era quella
della rigorosa osservanza e della rinuncia al mondo a tutto ciò che è
transitorio. Era l’elezione della «povertà volontaria» come espressione
della sequela Christi[50].
Nelle silenti vallate del Busento e dello Jassa, la natura aspra e
selvaggia richiedeva un dispendio di forze notevole per rendere quei
luoghi abitabili, favorendo l'esercizio della povertà non solo del
singolo monaco, ma di tutta la comunità. Erano angoli del territorio
laurignanese impervi e segregati, che si prestavano ad ospitare piccole
comunità monastiche, accentuando «la connotazione eremitica, le pratiche
ascetiche e le istanze escatologiche, individuando nell'inaccessibilità
dei luoghi lontani da ogni consorzio umano, nella ricerca del deserto,
nell'anelito alla solitudine, nell'obbligo del lavoro manuale, nella
mortificazione del corpo, nel numero ristretto dei membri della comunità
(...), nell'ufficiatura semplice e austera, i tramiti per saldare gli
aspetti istituzionali e le attese escatologiche»[51]. I monaci si
seppellivano in quelle vallate per riapparire periodicamente tra gli
uomini «ad evocare con le loro figure selvagge l’incombere della morte e
l’urgenza della conversione»[52].
Attraverso il lavoro manuale il monaco condivideva la condizione dei
contadini, i laboratores, la categoria più umile nella tripartizione
classica della società medievale[53]. Insomma, «più di un eremita
isolato e indipendente – ha osservato Jacques Le Goff – il monaco
vive[va] secondo una regola e incarna[va] gl’ideali di obbedienza e di
disciplina. E[ra] votato alla ricerca di Dio nella preghiera e nella
solitudine, ma e[ra] anche in cerca di tranquillità e di pace. Prega[va]
per la salvezza degli altri uomini, ma persegui[va] in primo luogo la
propria perfezione e la propria personale salvezza»[54]. Il tutto
impregnato dal desiderio di Dio, dal profumo e dalla pregustazione di
cose eterne.
La dominazione normanna nel Mezzogiorno coincise con la comparsa sul
proscenio della storia regionale di un personaggio tra i più enigmatici
e carismatici: Gioacchino da Fiore. L'abate calabrese «di spirito
profetico dotato», dette vita ad una rete di monasteri ubbidienti alla
sua regola che ebbe una notevole influenza nella temperie religiosa e
spirituale dell’epoca e che farà sentire i suoi effetti anche nel
contado laurignanese. Nei secoli successivi diverse fondazioni e
presenze conventuali (Francescani, Domenicani, Carmelitani, Teresiani)
furono testimoni della travagliata vita religiosa e sociale che si
viveva nel territorio laurignanese. Ma questa è storia dei secoli XVI e
XVII, quando fiorì la stagione più feconda dei monasteri Francescani
extramoeniali sul territorio.
[1] F. Burgarella, Cosenza tra il primo e il secondo millennio, in
Cosenza nel secondo millennio. Atti del corso popolare di storia, a cura
di L. Bilotto, S. Giovanni in Fiore, p. 30
[2] P. Dalena, Istituzioni religiose e quadri ambientali nel Mezzogiorno
medievale, Cosenza 1997, p. 92
[3] Per la conquista normanna in Calabria e il consolidarsi della
monarchia, si segnalano E. Pontieri, Tra i Normanni nell’Italia
meridionale, Napoli 1948; P. Delogu, I Normanni in Italia. Cronaca della
conquista e del regno, Napoli 1984; S. Tramontana, La monarchia normanna
e sveva, Torino 1994; S. Tramontana, I Normanni in Italia. Linee di
ricerca sui primi insediamenti. Aspetti politici e militari, Messina
1970; E. Cuozzo, L’unificazione normanna e il regno normanno-svevo, in
Storia del Mezzogiorno, a cura di G. Galasso, Vol. II, tomo II, Napoli
1989; E. Cuozzo, Quei maledetti Normanni. Cavalieri e organizzazione
militare nel Mezzogiorno normanno, Napoli 1989.
[4] P. De Leo, Certosini e Cisterciensi nel Regno di Sicilia, Soveria
Mannelli 1993, p. 23
[5] P. Dalena, Istituzioni religiose...cit., p. 78
[6] P. Dalena, Ambiti territoriali...cit., p. 94
[7] P. De Leo, Mestieri, lavoro e professioni nella Calabria medievale.
Atti dell’VIII Congresso Storico calabrese, Palmi 19-22 novembre 1987,
Soveria Mannelli 1993, p. 124
[8] A. Pratesi, Carte latine...cit., p. 219
[9] Ibidem, p. 230
[10] Ibidem, pp. 129, 220-221
[11] Ibidem, p. 232 doc. 93
[12] P. Dalena, Istituzioni religiose...cit., p. 136
[13] G. Miccoli, I monaci, in L’uomo medievale, a cura di J. Le Goff,
Bari 2000, p.57
[14] Cfr. G. Penco, Storia della Chiesa in Italia. Dalle origini al
Concilio di Trento, vol. II, Milano 1978, p. 296
[15] P. De Leo, Mestieri, lavoro e professioni...cit., p. 125
[16] G. Miccoli, I monaci...cit., p. 61
[17] P. De Leo, Mestieri, lavoro e professioni...cit., pp. 124-125
[18] Sulla località Granci si rimanda a A. Scarcello, Laurignano...cit.,
p. 125. Sul significato di grància o gràngia vedi alla voce «Gràngia»,
Il Vocabolario Treccani, vol. II, p. 701: «Dal francese grange, francese
antico granche, "granaio", che è il latino popolare granìca, derivazione
di granum "grano". Organizzazione benedettina, specialmente
cisterciense, di persone e beni economici, costituita inizialmente da
edifici rurali sui terreni di un'abbazia per la custodia dei prodotti
agricoli, e in seguito (sec. XII) trasformata, per il lavoro manuale dei
monaci stessi, in una piccola comunità monastica governata da un
rappresentante dell'abate e una unità economica (fattoria) amministrata
dal cellelario o monaco "granciere"; ampliata dalla popolazione laica
dei salariati, contadini, pastori, piccoli artigiani, diede origine a
villaggi rurali che conservano tuttora la denominazione originaria di
grangia o grange (in Francia la grange)».
[19] A. Placanica, La Calabria nell'età moderna, Napoli 1988, p. 339
[20] F. Pometti, Carte delle abbazie di S. Maria di Corazzo e di S.
Giuliano di Rocca Falluca in Calabria. Contributo alla storia degli
ordini religiosi, Roma 1903, p. 60
[21] C. D. Fonseca, Monachesimo ed eremitismo in Italia nel XII secolo,
in Studi in onore di Giosuè Musca, a cura di C. D. Fonseca e V. Sivo,
Bari 2000, pp. 173-187
[22] G. Miccoli, I monaci...cit., p. 56
[23] P. Dalena, Istituzioni religiose...cit., pp. 78-79
[24] A. Pratesi, Carte latine...cit., pp. 35-36.
[25] A. Pratesi, Carte latine…cit., p. 35
[26] Ibidem, p. 134
[27] F. Russo, Storia della Chiesa in Calabria dalle origini al Concilio
di Trento, vol. II, Soveria Mannelli 1982, p. 590
[28] A. De Monte, S. Laverio Martire...cit., p. 59
[29] Ibidem, pp. 59-63
[30] F. Pometti, Carte delle abbazie...cit., pp. 69-70, doc. XVII
[31] P. Dalena, Ambiti territoriali...cit., p. 144
[32] Ibidem, p. 126
[33] Ibidem., p. 127
[34] Per il monachesimo cistercense in Val di Crati si veda P. De Leo,
Certosini e Cisterciensi...cit.
[35] Cfr. F. Russo, Storia della Chiesa in Calabria...cit., p. 590
[36] P. De Leo, Certosini e Cisterciensi...cit., p. 145
[37] P. De Leo, L’insediamento dei cistercensi nel «Regnum Siciliae»: i
primi monasteri cistercensi calabresi, in I Cistercensi nel Mezzogiorno
medioevale, a cura di H. Houben e B. Vetere, Atti del convegno
internazionale di studio in occasione del IX centenario della nascita di
Bernardo di Clairvaux (Martano – Latiano – Lecce, 25-27 febbraio 1991),
Galatina 1994, p. 320
[38] A. Pratesi, Carte latine...cit., p. 417
[39] Ibidem, pp. 325-328
[40] A. Pratesi, Carte latine...cit., pp. 172-179, docc. 68-69
[41] RVC, vol. II, nr. 10469
[42] RVC, vol. II, nr. 11610
[43] F. Russo, La figura storica di Gioacchino da Fiore, in Storia e
messaggio in Gioacchino da Fiore, Atti del I° Congresso internazionale
di Studi gioachimiti, San Giovanni in Fiore, 19-23 settembre 1979,
Napoli 1980, p. 12
[44] Cfr. A. Scarcello, Laurignano...cit., pp. 41-44
[45] P. De Leo, Certosini e Cisterciensi...cit., p. 188
[46] ASCS, notaio Plantedi, anno 1583, sch. 344v
[47] ASCS, notaio Giordano, anno 1569, sch. 180
[48] P. Dalena, Istituzioni religiose...cit., p. 59
[49] C. D. Fonseca, Monachesimo ed eremitismo...cit., pp. 173-187
[50] G. Miccoli, I monaci...cit., p. 68
[51] C. D. Fonseca, Monachesimo ed eremitismo...cit., pp. 173-187
[52] G. Miccoli, I monaci...cit., p. 42
[53] Ibidem, pp. 173-187
[54] J. Le Goff (a cura di), L’uomo medievale, Bari 2000, p. 13
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