Tessano e Pasquale Rossi, quale rapporto ?

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Durante un suo breve soggiorno a Napoli, Pasquale Rossi, il giovane medico e sociologo positivista, ammaliato dal propizio clima culturale che si respirava all'ombra del Vesuvio, confidò all'amico Quintieri che gli sarebbe piaciuto sperimentare la possibilità di allontanarsi dalla grettezza della provincia per tuffarsi «in ambiente più consentaneo», donde attendere con maggiore profitto ai suoi studi. Ma il proposito di trasferirsi lontano da Cosenza non gli riuscì mai. O, forse, più verosimilmente, non volle mai realizzarlo.
A cavallo tra la fine del XIX e i primi anni del XX secolo, il Rossi concluse la sua esperienza terrena un pomeriggio di settembre del 1905 nel piccolo borgo di Tessano, dove trascorse «stanco e sofferente» gli ultimi anni della sua breve e pulsante vita. Mori a soli 38 anni, a pensarci bene gli stessi anni di Aleksandr Puvkin uno in meno di Giacomo Leopardi, straordinari autori morti come lui alle soglie dei quarant'anni.
Nella casa tessanese che era stata del nonno paterno elaborò le sue pregnanti teorie, sfociate poi nella pubblicazione di opere come L'animo della folla (1898), Psicologia collettiva (1900) ed altre ancora, che gli valsero attestazioni di merito e riconoscimenti in tutta Europa, il conferimento di una laurea honoris causa all'Università di Londra nonché l'inserimento del suo nome fra i membri del prestigioso Istituto Internazionale di Sociologia di Parigi.
Ma Tessano, l'amata Tessano, questo mucchio di case diroccate sulla schiena di un crinale, cos'era per il Rossi? Era una sorta di enclave protetta, il buen retiro dove appartarsi a studiare e scrivere in tranquillità oppure rappresentava per lui qualcos'altro? Che rapporto instaurò con i tessanesi del suo tempo? Causa la reticenza delle fonti a disposizione rispondere esaurientemente a questi interrogativi non è compito agevole. Le scarne e frammentarie testimonianze rintracciabili nei suoi scritti lasciano tuttavia trapelare un rapporto di amorevole afflato, intriso di espressioni cariche «di affetto e di lirismo».
Basti pensare a come egli tratteggiò il paesaggio tessanese in alcune sue mirabili pagine; ne fece una descrizione per niente oleografica, ma al contrario densa di stimoli e di suggestioni: «[Tessano] dove il verde cupo dei castani si confonde con lo smeraldo del cielo e dove il silenzio è alto e l'animo si eleva al sublime».Quando l'agone politico cittadino, le onorificenze in giro per il continente e gli impegni nella massoneria (presto abbandonata) glielo consentivano, egli amava immergersi in questo paesaggio, per goderne estasiato i fremiti della natura lussureggiante.
S'intratteneva con i contadini del posto a dialogare e a fumare insieme qualche sigaro, per carpire dai recessi più nascosti di quelle anime semplici e illetterate - abbrutite dall'indigenza – le stigmate psicologiche stratificatesi nei secoli e tramandateci dall'atavica sofferenza dei nostri padri, per cogliere nelle bizzarre trame delle rumanze quelle fonti storiche e antropologiche con cui accrescere le sue conoscenze sul folclore e sulle tradizioni locali.
Pasquale Rossi - scrive Paolo Jediowski – fu pioniere di una "medicina dei poveri". Anche nella voce del popolo egli era il "medico dei poveri". A Tessano Pasquale Rossi era i! medico, mentre i Tessanosi erano i suoi pazienti, per default.
Sul finire dell'Ottocento qui, come in tutti i piccoli centri rurali del Mezzogiorno, le condizioni di vita delle classi subalterne erano scandite dall'abiezione e dalla fame, In questo contesto di arretratezza e di miseria egli svolse la sua attività di medico (ma forse è più corretto dire la sua missione di filantropo) e maturò quel «positivismo socialisteggiante» entro cui delineò i percorsi e gli orizzonti di una scienza nuova, che assumerà il nome di psicologia collettiva e che faranno del Rossi un esponente di punta nel gotha delle scienze sociali in Italia.
Da posteri conterranei del Rossi ci piace immaginare che sia stata la natura immacolata delle nostre contrade la musa ispiratrice delle sue teorie innovative; che nella bonomia degli indigenti tessanesi abbia intravisto la caducità della natura umana, quindi la tabula rasa su cui disporre le tessere delle sue profonde concezioni sull'individuo e sulla "folla"; che nella scaltra ignoranza dei contadini delle nostre contrade abbia scorto quell'ambiente «più consentaneo» e stimolante negategli dalla colta grettezza cittadina cui attingere la linfa vitale per suoi studi prediletti.