Una faida del 1800

      In questa pagina vogliamo ricordare i “fatti e misfatti” di un dipignanese, filoborbonico, il capitano Peppe Mele, personaggio ambiguo, di cui la memoria paesana lo tramanda come brigante, patriota, codardo e vendicativo, coraggioso, violento e sanguinario.
Nicola Misasi, nel suo romanzo “L’assedio di Amantea”, lo descrive come un eroe, rozzo, astuto e sprezzante del pericolo.
Invece Luigi M. Greco negli “Annali”, lo descrive come uomo cattivo, protagonista di nefandezze e di misfatti.
Si racconta che preso da morboso desiderio per la giovane e bella Grazia De Prezi, e non potendo ottenere da essa la benevolenza ed i favori, pensò di rapirla e di stuprarla, sicuro di rimanere impunito, per le protezioni di cui godevano allora i sanfedisti. L’episodio fu fonte di odio inestinguibile.
Il 6 agosto 1806 , ordì una trama contro i cinque fratelli Marini-Serra , ritenuti filofrancesi, poiché temevano di incappare in mani borboniche, pensarono di cercare rifugio a Cosenza, in casa di un loro congiunto, il tenente-colonnello Fascetti. A notte inoltrata, si avviarono da Dipignano verso la città, ma nei pressi di Donnici, vennero arrestati da un gruppo di legittimisti. La notizia dell’arresto giunse a Peppe Mele, che fece liberare i prigionieri, creandosi un alibi per inseguirli e poterli catturare , teso un agguato presso la contrada Albi rimasero uccisi quattro dei fratelli; Vincenzo si salvò perché si era attardato a bere in una vicina fontana, denominata Pisciarelli.
Si narra di un’altra nefandezza, perpetrate da Peppe Mele, nel novembre del 1807, ai danni di Gabriele Albi, proprietario terriero e patriota. Il Mele lo odiava tanto, ma allo stesso tempo lo temeva, tanto che non aveva il coraggio di affrontarlo direttamente, per cui convinse due coloni dell’Albi a portargli il loro padrone per poterlo bruciare vivo o la sua testa, ma la congiura fu sventata dall’ardimento e dall’accortezza dell'Albi, al che indirizzarono le loro attenzioni al fratello Rosario che con un inganno lo rinchiusero in una casetta colonica e lo seviziarono fino a procurargli la morte.
Quando nel 1808 le bande borboniche erano state sconfitte dalle truppe dalle truppe francesi. Peppe Mele si era arruolato nelle schiere civiche, avendo ottenuto l’amnistia, grazie al capitano Vigna, uomo sensibile al denaro. Cosicché, un tal Marrazzi, non solo per motivi personali, ma anche sollecitato da Gabriele Albi e della famiglia De Prezi, il 26 ottobre si appostò, assieme a Giuseppe Sisca, all’interno del campanile di una chiesa di Piane. Mentre Peppe Mele passava insieme a un certo Mendicino, entrambi vennero colpiti a morte dall’alto del campanile: Sisca sparò al Mele e Marrazzi al Mendicino. Gli assassini, sebbene noti a tutti, rimasero impuniti.
La fantasia popolare ha tramandato il fatto soffermandosi ad evidenziare un particolare: la gente per prima accorsa non osava avvicinarsi al corpo del Mele, disteso bocconi, tanto era la paura; e da lontano, con una lunga pertica, qualcuno lo rimosse, per assicurarsi ch’era morto effettivamente.
Bisogna soggiungere che Pietro Mele, fratello di Giuseppe, inseguì la vendetta con crudeltà e con coraggio, fino a quando non rimase anch’egli vittima in un agguato.