Sono
ricordi che spesso si perdono fra le pieghe della memoria
quelli che affiorano guardando una sbiadita foto in bianco e
nero: un’intera famiglia su una nave in attesa di sbarcare
nella “terra promessa”. E anche se ormai queste vicende
possono apparire lontane visto che da tempo anche la
Calabria è terra d’immigrazione, non bisogna dimenticare che
questo è un passato ancora vicino, una pagina significativa
della nostra storia.
L’arco di tempo che va dalla
fine dell’Ottocento agli inizi del ventesimo secolo, vede il
mondo in profonda trasformazione, la popolazione mondiale è
aumentata più di mezzo miliardo e la vecchia Europa è
cambiata: non offre più quelle speranze e quelle opportunità
ormai raffigurate da nuove terre. La gente cerca nuovi
orizzonti, nuove aspettative o forse solo un pezzo di pane e
un tetto sulla testa.
A partire da questo periodo
una speranza formidabile scuote l’Europa. Per tutti i popoli
schiacciati, soffocati, oppressi, asserviti, massacrati, per
tutte le classi sfruttate, affamate, devastate dalle
epidemie, decimate da anni di carestie e di miseria,
incominciò a esistere una terra promessa: l’America.
Una terra aperta a tutti, una
terra libera e generosa dove i dannati del vecchio
continente sarebbero potuti diventare i pionieri di un nuovo
mondo, i costruttori di una società senza ingiustizie e
senza pregiudizi.
Si è
parlato di emigrazione a Dipignano, in un convegno
organizzato dall’Istituto
Comprensivo
“S.Valentini”, con Giovanni Sole, docente di Antropologia
Religiosa all’Università della Calabria, Franco Michele
Greco, studioso dipignanese, autore del volume “Navi di
Lazzaro e treni del sole. Realtà e storie dei calabresi
all’estero”, edito da Calabria Letteraria Editrice, il
Dirigente Scolastico Rosina Morrone, il poeta Franco Araniti
e il moderatore Eugenio Gallo.
Per diverse decine d’anni,
l’ultima tappa di questo esodo senza precedenti nella storia
dell’umanità fu, al termine di una traversata il più delle
volte effettuata in condizioni terribili, un isolotto
chiamato Ellis Island (l’isola delle lacrime), dove i
servizi dell’Ufficio Federale Immigrazione avevano
installato il loro centro di accoglienza. Così, su questo
stretto banco di sabbia, a qualche gomena dalla statua della
Libertà, allora appena collocata, si radunarono per un certo
periodo di tempo tutti coloro che, da allora, fecero grande
la nazione americana.
I
piroscafi (le Navi di Lazzaro) erano i mezzi di questo
grande esodo che rendevano la traversata transoceanica più
breve, più sicura e senz’altro meno costosa visto che per un
biglietto occorrevano all’incirca otto dollari meno della
metà di un viaggio nel cuore
dell’Europa.
Mete di questi viaggi gli Stati Uniti e il Sud America
perché Paesi che richiedevano il maggior numero di braccia.
Però spesso, troppo spesso questi viaggi della speranza si
concludevano in tragedie, infatti molti emigranti finivano
nella mani di sfruttatori che li costringevano a lavorare in
un modo che rasentava la schiavitù.
Mentre anche le condizioni in
cui spesso erano costretti a vivere diventavano
inaccettabili e non sempre l’ambiente che trovavano era
ospitale. Col tempo infatti si svilupparono vere e proprie
forme di razzismo ed intolleranza nei confronti degli
emigrati.
I lavoratori locali vedevano
negli stranieri un pericolo per il loro potere contrattuale
dato che quest’ultimi accettavano condizioni di lavoro a cui
nessun altro lavoratore si sarebbe piegato.
Situazione ben diversa in
America latina dove l’agricoltura, ad esempio, era in mano
ai grandi proprietari terrieri, i “fazenderos”, i quali,
essendo stata abolita la schiavitù, avevano trovato il modo
di ottenere comunque manodopera a bassissimo costo. Ma
questo portò anche alla nascita di piccole industrie e di
piccole e medie imprese grazie all’inventiva ed allo spirito
di sacrificio tipico degli italiani. Quindi come giudicare
il fenomeno migratorio di questo scorcio di tempo?
Senz’altro fu l’inizio di una nuova era e la fine di un
vecchio sistema. Molte persone non fecero mai più ritorno
in patria e tagliarono i ponti col passato, chi invece si
era arricchito ed aveva mantenuto rapporti con la terra
d’origine, favorì significativi scambi tra le due terre. In
ogni caso tutti i Paesi ospitanti ebbero da guadagnare da
questo esodo, e con essi anche i Paesi d’emigrazione. Ecco
che il fenomeno emigratorio si afferma quale storia di una
trasformazione e di una rinascita.
L’America grande, generosa
di spazi e di illusioni, per molte famiglie fu un tempo solo
ed esclusivamente l’Argentina, una sorta di Eldorado, dove
andare a vivere e realizzare sogni. Ed è sempre esistita una
differenza e una sofferenza sostanziale tra chi, essendo
emigrato negli Stati Uniti, la Merica l’ha costruita
per davvero e altra gente che vive in Argentina e si trova
sempre a dover ricominciare, in una specie di “caccia al
tesoro” dove la sospirata fortuna continua a sfuggire.
Le terre oltre oceano
diventano, dunque, ampio serbatoio d’accoglienza di tanti
calabresi in fuga dalla nostra terra per fame, per sogni di
miglioramento, anche per storie politiche e sociali. Una
Merica grande, sognata, desiderata.
Franco
Michele Greco, come figlio di emigranti, ha ricordato questi
sogni, i desideri perseguiti anche al duro prezzo del
proprio sradicamento, per sfuggire una miseria che
accompagna
l’umano destino del calabrese sin dalla nascita. Molto
spesso queste storie intrecciano altre storie di povertà e
di tragedie annunciate. Storie di emigranti sommersi
nell’ansia, nell’angoscia, nella profonda nostalgia della
propria lingua e del ritorno a quella lontana casa mai
dimenticata.
Gli emigranti dipignanesi
quando chiudevano le loro lettere ai familiari, quelle
lettere che, nell’era di internet, non si scriveranno più,
si preoccupavano di aggiungere: “salutate tutti quelli che
domandano di noi”. Non volevano essere dimenticati.
Al momento del distacco
sigillarono nella mente e nel cuore, gli odori, i suoni, i
colori, i paesaggi, i volti dei familiari e degli amici.
Queste immagini se le portarono per tutta la vita
d’emigrazione come bagaglio, pronti a rivelarle nei momenti
di grande malinconia. La nostalgia fu il sentimento con cui
impararono a convivere sin da subito, e che ancora “batte
forte, come nelle note del ‘Caruso’ di Lucio Dalla”, secondo
l’espressione usata da Francesco Arvia, un emigrante di
Alessandria Del Carretto che Greco ha intervistato a Buenos
Aires nel 1993.
Con grande meraviglia ,
dopo decenni di assenza, in occasione dei primi rientri in
Italia, i patetici emigranti si sono meravigliati per la
trasformazione della società meridionale, che è progredita,
ma ha dimenticato molto spesso i suoi figli fuori
dall’Italia, relegandoli in brevi note enciclopediche
corredate di dati statistici.
Tra l’altro è necessario
rivolgere un sentito ringraziamento alle nostre collettività
all’estero per il contributo dato alla bilancia dei
pagamenti italiani, contributo che ammonta ogni anno a ben
115.000 miliardi delle vecchie lire; una grande finanziaria
che non è stata mai riconosciuta, anche se favorisce
l’economia del nostro Paese.
Giovanni Sole si è chiesto
più volte durante il convegno chi erano i protagonisti di
quel grande esodo, cosa si portavano dietro e cosa si
lasciavano alle spalle?
Gente che emigrava, ma che
non conosceva le lingue, pronti ad adattarsi agli usi e ai
costumi di chi li ospitava, eppure così riconoscibili. Gente
che in Italia non sapeva cosa fosse la Patria, salvo poi
fuori dallo stivale scoprire un orgoglio seppellito nei più
nascosti angoli del proprio passato. Emigranti con le
radici; integrati ed ambasciatori, commercianti di culture,
curiosi e nostalgici. E comunque capaci di lasciare un
segno, un tratto di civiltà, nella terra che li ha ospitati.
Non bisogna dimenticare,
dunque, le navi di Lazzaro e le valigie di cartone legate
con l’immancabile spago di cento anni fa, ma anche i treni
del sole di mezzo secolo fa: bisogna esserne fieri.
Tuttavia è doveroso
sottolineare che ai limiti della ricerca di Franco Michele
Greco, dovute allo stato delle fonti, si aggiunge un grande
limite di partenza, che è anche un rimpianto dell’autore:
manca la ricerca, tranne per l’Argentina, nei luoghi di
arrivo degli emigranti, quella da fare oltreoceano o nel
nord Europa, negli archivi delle città in cui la gente
calabrese approdava, sui registri di immigrazione e sulle
fonti reperibili nelle anagrafi dei luoghi dove si
insediavano e nelle biblioteche, che possono fornire la
documentazione su cosa i “padroni di casa” pensavano dei
nuovi arrivati. Dati tutti indispensabili che, uniti agli
altri, potrebbero essere in grado di confermare ipotesi, di
aprire nuove interpretazioni, di far capire appieno quanti
ce l’hanno fatta e quanti sono stati sconfitti.
Di grande significato le
parole dell’Avv. Salvatore Dionesalvi, sempre attento alle
iniziative culturali di grande spessore, indirizzate
all’opera di Franco Michele Greco: “Navi di Lazzaro, treni
del sole, miseria errante della patria. C’è molto da
tesorizzare dagli umili dipignanesi emigrati per lavoro:
sono talenti da imitare nel nostro quotidiano”.
Oggi le valigie di cartone si
sono trasformate, sono diventate di lusso: sono un segno
delle enormi potenzialità che, nel corso di più di cento
anni della storia calabrese, l’emigrazione ha prodotto, e a
cui andrebbe più spesso reso omaggio. Gli emigranti hanno
garantito un percorso di ripresa e di rinascita riconosciuto
e ammirato in ogni parte del mondo.
Riprendendo quanto hanno
testimoniato molti emigranti dipignanesi, è possibile
sostenere senza timore di esagerazione che la Calabria non è
solo dei calabresi, ma appartiene ormai all’umanità intera.
Giovanni Sole e Franco
Michele Greco hanno sottolineato che l’emigrazione calabrese
di ogni epoca ha un denominatore comune nel prezzo umano e
sociale pagato come tributo alla Calabria e all’Italia per
la sua crescita prima e per la ricostruzione dalle macerie
della guerra dopo.
Il sacrificio di tante
vite umane, hanno ricordato la tragedia di Marcinelle dell’8
agosto 1956, agitò le coscienze umane e politiche per la
brutalità delle condizioni in cui lavoravano quegli uomini
coraggiosi e diede un impulso decisivo per attivare misure
di salvaguardia della salute e della vita umana sui luoghi
di lavoro.
Gli emigranti hanno pagato un
pesante tributo allo sviluppo di molte società, perché
ovunque, da Marcinelle ai pozzi minerari degli States o
dell’Argentina, hanno testimoniato nel lavoro la grande
capacità di sopportazione della sofferenza, ma anche le
competenze necessarie per la realizzazione di grandi opere.
Per questo è necessario
parlare alle nuove generazioni delle tante tragedie che
hanno costellato la vita degli emigranti all’estero,
affinché riflettano e scoprano i valori culturali e storici
che hanno accompagnato il processo di emigrazione di massa
dal nostro Paese. Alle giovani generazioni bisogna additare
la grande umanità dei 136 minatori italiani periti in
Belgio, e l’impegno incessante testimoniato fino ai nostri
giorni dai loro compagni di lavoro sopravvissuti a quella
tragedia.
Perché è attraverso questa
ricchezza che i calabresi hanno difeso la propria identità,
le proprie radici ed hanno imparato a raccontarsi, poiché
sanno di avere molto da dire ed in alcuni campi anche da
insegnare.
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