Riesce difficile
a noi, uomini del Terzo Millennio, immaginare il silenzio e la
solitudine che circondavano l’antico romitorio dei frati di Paterno.
Il luogo non è più quello di secoli addietro. Le grandi solitudini,
dove svernavano gli armenti, le strade malsicure, le concerie, i
castagni secolari, i gelseti, non esistono più.
Tuttavia è possibile far rinascere l’antico ambiente con un pizzico
di fantasia. Del resto, se si vuole capire la storia, maestra di
vita, occorre proprio questo: aiutarsi con la fantasia unitamente
all’immaginazione.
I tempi cambiano, e con i tempi cambiano i luoghi. Tutto tramuta il
tempo: l’uomo e le sue cose.
Perciò torna sempre utile ripercorrere la storia di Paterno al tempo
di San Francesco di Paola, alla luce di ciò che è stato tramandato
dai nostri avi e dal rinvenimento di ulteriori documenti d’archivio.
La gente di Paterno ha sempre immaginato Francesco di Paola entrare
nel piccolo casale a dorso di un asino, così come Gesù entrò in
Gerusalemme, dopo aver percorso antichi tratturi e sentieri
scoscesi. Al suo arrivo, poi, la festosa accoglienza dei nostri
progenitori. E’ accertato storicamente che il silenzio e la bellezza
della campagna paternese, che vantava a quel tempo angoli
paradisiaci, afferrarono l’anima del Paolano, il quale più che
cercare l’orizzonte e lasciarsi incantare dai declivi verdeggianti e
dalle colline punteggiate da alberi e siepi, preferiva sprofondare
nella cavità delle rocce per proteggere, lontano da ogni sguardo, la
fiamma interiore che lo bruciava. L’eremita cercava a Paterno il
tempo e il luogo della riflessione, della meditazione, del
rinnovamento interiore.
San Francesco restò certamente attratto da questo lembo di terra
calabrese e dalla nostra gente. Ecco i rioni di Merendi, Calendini,
Capore e Casale nello splendore del XV secolo.
L’eremita di Paola, invitato a Paterno da Paolo Rendace, nobile
paternese, diventato in seguito uno dei suoi maggiori discepoli,
avrebbe dovuto alleviare il peso della croce di tanta gente. Egli
seppe, soprattutto, guadagnarsi la simpatia del popolo, che in quel
frate e nei suoi primi compagni, cominciò a ritrovare quel senso di
misticismo ch’era rimasto nell’indole del loro sentimento e della
loro cultura, fin dal tempo dei Fratelli della Disciplina.
Il barone Simone dell’Alimena di Montalto, fu amico e benefattore di
Francesco di Paola, come testimoniano le lettere scritte dal Santo,
e come confermano i testi del Processo Cosentino per la causa di
canonizzazione.
Le lettere scritte dal Santo a Paterno, descrivono un ambiente umano
di estrema indigenza ma anche assuefatto alla sorte imposta
dall’organizzazione sociale imperante che vedeva tanta gente, povera
ed analfabeta, sotto la sferza di nobili arroganti e di funzionari
regi.
La piaga assillante che affliggeva Paterno al tempo di San Francesco
di Paola era la delinquenza, che infieriva, sia come fatto
individuale, sia nella forma antropologicamente più grave
dell’associazione di malfattori a scopo prevalentemente
d’estorsione: ossia il brigantaggio che calpesta ogni legge e non
tiene in alcuna considerazione la vita umana.
Era una società abbandonata ai suoi istinti da chi aveva l’obbligo
di educarla. Del tutto inefficiente la tutela della sicurezza
pubblica, quando non accadeva che altolocati favorissero il misfatto
e le autorità non si adoperassero a renderlo impunito.
Sicchè gli attentati alla legge avvenivano in ogni ora del giorno,
in pubblico e in privato, alla luce meridiana o nel cupo della
notte, ed era sempre facile gettarsi alla macchia ed essere
inafferrabile; l’omertà, d’altro canto, serpeggiava ampiamente per
viltà e timore di rappresaglie.
Nei boschi di castagno di località Ruparbi, Cicia Russa, Patrucia,
vi si consumavano rapine e omicidi che restavano avvolti nella
penombra orrenda degli anfratti. I furti di animali erano abituali,
come lo era l’occupazione violenta di pascoli e di erbaggi. Questa
rudezza di costumi, questa ferocia di fatti si ritrova nei più
miseri strati della popolazione paternese della seconda metà del
Quattrocento, nella coscienza dei quali non arrivava nessuna luce di
spiritualità né dalla religione né tanto meno dalla cultura.
Su questo sfondo di degrado e di arretratezza s’innalzava, ricca di
fascino, la figura carismatica di Fancesco di Paola, il quale non
restava mai indifferente di fronte alla miseria che lo circondava.
“E Francesco di Paola – scrive il romanziere Nicola Misasi – accettò
l’invito dei cittadini di Paterno sol perché, a parer mio, più che
altrove, in quel paesello montano, il convento sarebbe potuto
riuscire utile alle molte borgate vicine, di cui Paterno è il
centro. Mi perdoni quella dolce e cara patria dei miei padri e dove
io trascorsi la mia infanzia or pensosa or chiassosa e dove forse
quel po’ di ingegno che natura mi diede si aperse innanzi al
maestoso spettacolo dei monti silani, che azzurreggiavano lontano e
dove dalla bocca dei vecchi appresi le fiere storie dei tempi
trascorsi, quando le virtù della razza erano ancora salde e
gagliarde, mi perdoni, ma io non credo che per predilezione dei
cittadini di essa Francesco di Paola s’indusse a fondarvi il suo
secondo convento, ma perché da quel centro meglio potevasi irradiare
la luce di carità che emanava dal suo cuore.
Quante, quante volte io, fanciulletto ancora, seduto sul rustico
sedile innanzi al convento, presso la fontanella che egli aveva
fatto scaturire dal vivo masso e presso alla quale chi sa quante
volte s’era riposato stanco del lungo lavoro, meditando sull’uomo
singolare, la cui grand’anima sentivo in tutte le cose che mi
circondavano, a me pareva di vederne la bella, dolce e pur gagliarda
figura! Ah, da quel luogo che bellezza di paesaggio e come
l’intelletto si eleva ed il cuore si sublima! Da quel convento
Francesco di Paola era partito per portare in Francia la fatidica
parola che per la prima volta, fra le rovine, gli eccidi, le
devastazioni, aveva mormorato, in un cuore di calabrese!”
E quella luce di carità così ben evidenziata da Nicola Misasi, era
l’antidoto ai mali che angustiavano la società paternese e un
fenomeno appropriato di rinascita cristiana.
“Oh! Miseri sventurati –scriveva l’eremita in una sua lettera,
riferendosi ai tiranni locali che sfruttavano la povera gente –avari
al bene fare e prodighi al mal fare; voi che spendete più di quello
che avete in vanità, assassinando li vassalli!
Non conoscete voi che li popoli sono vassalli dell’Altissimo Dio?
Sono uomini come voi; vi sono stati concessi per sudditi, non che li
rubate e trattate malamente., ma che li governate con quella
diligenza che si ricerca al pastore delle pecorelle. O peggio assai
che lupi rapaci e delli famelici leoni, vergognatevi delle vostre
male opere, o cristiani per usanza e non con verità, o peggio che
infedeli, o tiranni del popolo di Dio!”.
Anche contro il clero, la cui decadenza morale si rivelava
soprattutto nel suo sproporzionato attaccamento agl’interessi
terreni e alle passioni, tuonava con espressione dura e rovente la
parola del santo di Paola.
Accogliendo il messaggio evangelico, egli si fece pellegrino di pace
anche per le vie di Paterno, non escludendo nessuno da questo
cammino, siano essi contadini o nobili, ladri o intellettuali.
Scrive Padre Francesco Rubino, dell’Ordine dei Minimi: “…percorreva
spesso i piccoli sentieri del paese e con la mente a Dio ed il cuore
agli uomini passava accanto agli usci delle case rispondendo ai
saluti della gente ed interessandosi ai vari problemi.
Con pazienza e con fiducia trasmetteva la parola buona nel cuore dei
paternesi invitandoli ad una vita cristiana più autentica”.
Sarebbe troppo lungo soffermarsi a raccontare tutti i prodigi che
San Francesco compì a Paterno. Ricordiamo che furono un’infinità i
malati guariti col solito stratagemma delle erbe; un uomo
resuscitato dopo che una tormenta lo aveva sorpreso e sepolto sotto
cumuli di neve; terreni spianati con la preghiera per favorire le
costruzioni; acqua fatta scaturire dal suolo o dalla roccia; travi
allungate come oggetti elastici; insomma una serie interminabile di
fatti prodigiosi da rimanerne col fiato sospeso.
Nell’antico casale di Paterno egli lottò, soprattutto, per alleviare
le sofferenze degli uomini emarginati e ridotti al silenzio,
impoveriti dai potenti e dal fisco regio, dalle malattie ritenute
incurabili, dalla disperazione, dalle ingiustizie subite e dalla
schiavitù del peccato.
Dice un anziano di Paterno, appartenente al Terz’Ordine di San
Francesco: “Paterno è la terra delle mie preghiere; è qui che la
prima volta mi sentii cristiano tra la campana del mattino e la
recita serale del Rosario. Ricordo le donne di ieri, avvolte dentro
panni neri, inginocchiate per terra nel mezzo della chiesa; ricordo
l’antico triduo che precedeva la grande festa in onore del Santo e
le tre grandi processioni annuali. La sera, poi, a letto con mio
nonno e mia nonna, recitavamo ‘e cose e Dddiu (le cose di Dio),
ripetendo la preghiera che si diceva in tutte le case di Paterno:
“San Franciscu miu de Paula/ Tu si Santu de carità/ E aiutame e
proteggimi/ nostri bisogni e necessità”
Scrive Leopoldo Iannelli:
“Certo Francesco fu, nel suo tempo, l’unico orecchio capace di
intendere ascoltando e l’unico occhio capace di vedere guardando.
…La sua voce, conservata nel silenzio per cinque secoli, suona oggi
più possentemente delle trombe di Gerico…”.
San Francesco di Paola è una presenza ancora viva nel cuore dei
devoti paternesi e produce intense emozioni che non sono molto
differenti da quelle di cinquecento anni fa. Il santo non si lascia
chiudere nelle gabbie del tempo e dello spazio. La tradizione ha
mantenuto con tenacia la sua immagine carismatica, ha fatto in modo
che la sua memoria non andasse smarrita nell’alternarsi delle
generazioni. Lo scorrere inesorabile del tempo, che come un fiume
tutto travolge e si porta via, i mutamenti economici e sociali, i
valori della modernità, hanno riplasmato la sua figura eccezionale e
apportato cambiamenti.
Ancora oggi i fedeli amano sentirsi aiutati dal santo di Paola nella
loro quotidianità; mentre lavorano o studiano, mentre mangiano,
mentre dormono, mentre viaggiano. Ancora oggi un’infinità di persone
si reca nel santuario di Paterno, per parlare con Lui, per offrirgli
doni, per chiedere sostegno e consigli, per ottenere piccoli e
grandi miracoli, per essere protetti e rincuorati. Il santuario di
Paterno non promana solo fascino, ma è capace anche di umanizzare.
Ogni visitatore può diventare pellegrino e ogni pellegrino può
intraprendere un cammino di fede, sostenuto e guidato da un annuncio
del tutto speciale di Gesù Cristo: la vita di Francesco di Paola.
Ancora oggi, per la gente di Paterno e dintorni, il “santo della
carità” non è una figura storica, ma familiare, un vero “gigante”
che si sgancia dal suo contesto sociale, fuori dal tempo e dallo
spazio.
Vale la pena concludere con quanto scrive l’antropologo Giovanni
Sole:
“Non si può studiare Francesco di Paola collocandolo solo nel suo
tempo, in quello precedente o in quello seguente. Egli è senza
storia nel senso tradizionale; sta nel passato, nel presente e nel
futuro”. |