Le Donne nella storia di Dipignano

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       Rintracciare nei documenti storici i segni della presenza femminile è sempre un’impresa ardua. La storia, quella religiosa, politica, economica, artistica, se si escludono personaggi tanto grandi quanto rari, è stata scritta  dagli  uomini.

   Se, dunque, è difficile trovare la presenza delle donne nel corso della storia ufficiale, tanto più lo diventa quando ci si cala nel piccolo scenario della vita di un  paese, nella storia locale. I documenti sono fitti di  nomi di uomini, ma di donne, nelle carte più antiche, nemmeno l’ombra. Il loro nome compare, quasi timidamente, nei capitoli matrimoniali dove si fa riferimento alle “doti”, o nei “testamenti”, dove le mogli sono invitate, se vogliono godere dell’eredità, a proseguire castamente la loro esistenza da vedove, mentre le figlie ereditano i beni necessari per proseguire la loro vita come mogli o religiose (una terza alternativa non era prevista).

   Del resto quello era il ruolo delle donne, essere madri, mogli o monache.

A Dipignano, almeno fino all’inizio del Novecento, le donne vivevano in casa, si arrossavano le mani lavando i panni nell’acqua dei torrenti o, più tardi, nei lavatoi sparsi per il paese, come quelli di ‘Ferdizza’, di ‘Fonti’, di ‘Nimbi’. Certamente aiutavano il coniuge o i figli nel lavoro, che si trattasse di andare nei campi o di macinare il grano al mulino, ma anche di questo raramente si fa menzione negli atti notarili.

   Dall’ampia massa documentale delle carte latine di Abbazie calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini del XIII e del XIV secolo, emerge chiaramente che esisteva una grande dicotomia intorno alla donna, la quale da una parte, come personaggio pubblico, sembrava non avere alcuna autonomia ed essere completamente dipendente dall’uomo, dall’altra, invece, nella sfera privata, era assai presente e determinante.

   In una “Chartula Venditionis” dell’aprile 1237 “Maria figlia di Arculei Vasapollis, nativa di Figline Vegliaturo nel territorio di Cosenza, insieme col marito Giovanni de Dipignano suo mundoaldo, vende per ventotto tarì d’oro a Giovanni Mentisano di Riccardo Mentisano una vigna in vocabolo in flumine Albicello e la sua porzione di tre piccole terre intorno alla stessa vigna” .

   Nel documento compare la figura del “mundoaldo”, il quale sanciva la dipendenza assoluta della donna dall’uomo.

Il “mundoaldo” era un residuo del diritto longobardo che voleva che la donna fosse per tutta la vita soggetta a tutela esercitata dal congiunto maschio più prossimo e che si conservò nelle terre longobarde, soprattutto nell’Italia meridionale, fino alle soglie dell’età moderna. Senza l’approvazione del “mundoaldo” gli atti giuridici della donna non erano validi.

 Il “mundoaldo” compare ancora in uno “Scriptum Concessionis” del dicembre 1248, quando “Sibilia vedova di Arnone de Lauratiano, e Nicola e Bruna figli del predetto Arnone, col consenso di Riccardo figlio di Perri Bandifori mundoaldo di Sibilia e tutore della  figlia, in presenza di Michele de Gemmitanis, giudice imperiale di Dipignano e casali, cedono a Gualtiero da Cosenza vescovo eletto di Nicastro e notaio dell’imperatore i propri diritti su nove giumenti di loro proprietà che Arnone dette a custodire al monastero di S.Angelo di Fringillo”.

  Tra il XII e il XIII secolo a livello di espressione scientifica e letteraria, le donne manifestano significative forme di reazione all’immagine stereotipa dell’inferiorità femminile costruita attraverso i secoli dalla cultura maschile. Cusina de Pastino, donna medico nella Dipignano medievale, travalica, ad esempio, i consueti confini entro i quali, almeno in Calabria, si collocava tradizionalmente la figura femminile. Con diploma del 22 maggio 1404, re Ladislao di Durazzo, considerando che “ad mulieres curandas viris sunt feminae aptiores”, dava licenza, previo esame, a donna Cusina di Filippo de Pastino, calderaio di Dipignano, d’esercitare chirurgia in Cosenza, “ in medicandis vulneribus ulceribus apostematibus doloribus longoribus egritudinibus et infirmitatibus ac aliis et diversis morbis et passionibus etc.” Dal documento, preso in considerazione per la prima volta da Oreste Dito, emerge una condizione femminile di gran lunga migliore da quella dei secoli passati e forse anche da quelli che verranno. Probabilmente Donna Cusina di Dipignano aveva studiato sui trattati della rinomata Scuola medica Salernitana.  Pensiamo al primo trattato di anatomia scritto da Mondino dei Luzzi nel 1316; agli scritti di Guglielmo da Saliceto (che verso il 1270 aveva introdotto l’uso del bisturi in sostituzione del ferro rovente utilizzato dai chirurghi arabi); alla “pratica Chirurgica” della fine del XII secolo ad opera di Ruggero da Salerno e agli studi di Rolando da Parma, il quale sapeva usare il trapano ed era il miglior specialista in chirurgia cranica.

 Tra le mura del palazzo Plastina, costruito al crocevia dell’antica Capocasale, donna Cusina praticò diversi interventi importanti. E’ possibile che ella sapesse arrestare un’emorragia con i legacci, operare un’ernia (o contenerla in bendature), trapanare, ricucire le estremità di nervi recisi, ridurre le fratture, praticare l’anestesia servendosi di qualche mistura.

   La fama di donna Cusina ebbe non poca risonanza in Val di Crati e Terra Giordana, tanto che alcune fonti orali dipignanesi tramandano la leggenda di una misteriosa donna medico che praticava la dissezione dei cadaveri umani per fini scientifici nei sotterranei della sua antica dimora.

  Nella Cosenza del XVII secolo, aperta agli scambi e al commercio con i casali viciniori, non solo gli uomini trovavano un mercato per le loro capacità economiche o professionali, per la loro ansia di “pubblico officio”, anche le donne avevano un loro spazio riservato. Almeno otto seni di balie contadine allattarono i rampolli Gerbase e Oranges e il vincolo di “latte” sostituì, probabilmente, quello coniugale per Lolla Mannella del fu Giovanni di Dipignano, che sul letto di morte non trovò altre persone cui offrire la sua “benevolenza” e i suoi 107 ducati cha alle “sue signore et patrone et figlie di latte” .

  La storia più recente ci ricorda, infine, la figura quasi leggendaria di Maria Carbone, esponente di spicco, insieme ad altre sette donne -le prime della Calabria iscritte a un partito politico- della sezione socialista di Dipignano guidata, intorno al 1921, da Salvatore Guercio. Maria Carbone, conosciuta meglio col nome de “la Passionaria”, fu la prima donna in provincia di Cosenza ad entrare nel Consiglio direttivo di una sezione di partito e a distinguersi per passione politica, entusiasmo e determinazione. Dimostrò doti di coraggio durante gli scontri tra militanti di sinistra e fascisti, avvenuti nella città bruzia in occasione della festa del 1° maggio 1922, difendendo con tutta la sua energia le contadine della lega rossa dipignanese che aprivano il grosso corteo; e fu ancora lei a rincuorare gli animi dei socialisti dipignanesi quando nella notte del 19 dicembre 1922, fascisti del luogo, insieme al altri venuti di rinforzo dai paesi vicini, devastarono la sezione socialista, asportando un ritratto di Lenin e il registro degli iscritti.

   Donne come Maria Carbone sono da considerarsi una meteora nella millenaria storia dipignanese.

Tutte le donne, non solo quelle di Dipignano, restarono ovviamente sottomesse al potere degli uomini che le giudicavano inaffidabili e fragili.

Solo negli ultimi decenni le donne hanno incominciato a liberarsi delle più strette pastoie nelle quali le ha tenute il potere maschile.