Donne di medicina nella Calabria medievale
di Franco
Michele Greco
Quasi certamente il primo medico della storia fu una donna: chi
avrebbe curato il maschio ferito nella caccia se non lei, per
esperienza conoscitrice delle erbe che raccoglieva ogni giorno, per
istinto portata a nutrire, alleviare le sofferenze, medicare. E
forse sarà donna anche l'ultimo medico, quello dei secoli a venire.
O così almeno suggeriscono alcuni antropologi, per i quali "la donna
nasce medico, mentre l'uomo deve studiare per diventarlo". E
non a caso Oscar Wilde sosteneva che "nessun uomo ha davvero
successo se non ha le donne dalla sua parte, perché le donne
governano la società". Tuttavia le donne medico, per secoli, furono
relegate nell'ombra, e spesso i dottori coi calzoni si
impadronirono delle scoperte delle colleghe e le fecero passare per
proprie. La più rispettata delle dottoresse dell'antichità fu Ipazia,
che ad Alessandria d'Egitto, nel V secolo d.C., "era giunta a un
tale culmine di sapienza da superare di gran lunga tutti i filosofi
della sua cerchia". Troppo. Linciata dai monaci su istigazione del
vescovo Cirillo (poi diventato San Cibilo), i pezzi del suo corpo
furono sparsi per la città. La storia ci ricorda le donne medico
della Scuola medica salernitana, i cui nomi echeggiano altisonanti
nelle pagine dei testi di storia della medicina (Trotula de'
Ruggiero, Abella di Castellomata, Rebecca Guarna, Mercuriale,
Costanza Calenda), Florence Nightingale, Marie Curie, Santa
Francesca Saverio Cabrini, fino ad arrivare a Madre Teresa di
Calcutta e al Premio Nobel Rita Levi Montalcini. Per quanto riguarda
la Calabria,il nostro interesse si sofferma su un documento preso in
considerazione per la prima volta dallo storico Oreste Dito. Con
diploma del 22 maggio 1404, rè Ladislao di Durazzo, considerando che
"ad mulieres curandas viris sunt feminae aptiores", dava incarico al
maestro Benedetto di Roma, giudeo, perché esaminasse le cognizioni
mediche e terapeutiche di donna Cusina di Filippo de Pastino,
calderaio di Doignano, e le conferiva la licenza, previo esame, per
la pratica della professione chirurgica a Cosenza, "in medicandis
vulneribus ulceribus apostematibus doloribus longoribus
egritudinibus, et infirmatibus ac aliis et diversis morbis et passibnibus
etc".
Il Regno di Napoi ccstituì senz a dubbio un'oasi a sé stante per le mulieres nel panorama della medicina medievale, soprattutto per la
presenza della Scuola medica salernitana e per il clima intercultura'e
e multietnico, che si respirava a quell'epoca. Il ricchissimo
Archivio Angioino ha traghettato una polposa documentazione sulla
presenza di donne medico tra il XIII e il XV secolo nel Regno di
Napoli. Ben 24 nomi di chirurghe sono tornati alla luce. Tredici di
esse possedevano una precisa licenza per praticare la chirurgia
sulle donne ed occuparsi di precise questioni attinenti la
ginecologia e le malattie della mammella. Solo di recente, ho avuto
il piacere di leggere tra le carte ormai sbiadite dalla polvere di
tanti secoli, nel Registro angioino n.318, il nome di Cusina de
Pastino di Dipignano. La figlia del ricco ramaio dipignanese,
diventata medico nella Calabria medievale, godeva dell'unanime stima
popolare, al punto da essere definita quasi magistra. La fama di
donna Cusina ebbe una vasta risonanza in Val di Crati e Terra
Giordana, tanto che alcune fonti orali tramandano la leggenda di
una misteriosa donna medico autorità indiscussa, che praticava la
dissezione dei cadaveri umani per fini scientifici nei sotterranei
della sua antica dimora al crocevia di Capocasale.
Qui, nel cuore pulsante della vecchia Dipignano, visse e operò
Cusina de Pastino, donna singolarissima e dai molteplici interessi,
dotata di una personalità che con determinazione e una straordinaria
intelligenza perseguì quello in cui credeva, anche scontrandosi
duramente con le convinzioni del suo tempo. Donna Cusina, che si
era addottorata sui testi della Scuola medica salernitana, sui
trattati di Guglielmo da Saliceto (che verso il 1270 aveva
introdotto l'uso del bisturi in sostituzione del ferro rovente
utilizzato dai chirurghi arabi) e sulla "Practica Chirurgica"
scritta da Ruggero da Salerno alla fine del XII secolo, praticò
certamente interventi importanti per la sua epoca. E' possibile che
ella sapesse arrestare un'emorragia con i legacci, operare un'ernia
(o contenerla in bendature), trapanare, ricucire le estremità di
nervi recisi, ridurre le fratture, praticare l''anestesia servendosi
di qualche mistura. L'essere donna le conqstava la fiducia delle sue
consimili mentre l'appartenenza alla Scuola medica salernitana era
garanzia di validità delle terapie da lei suggerite. La sua
determinazione non fu ostentazione di superiorità ma, al contrario
rivelò in lei l'umiltà e la modestia delle sue origini con cui
s'incamminò sulla strada tracciata dai sapienti dell'antichità
classica, riconoscendone l'autorità incontestata, nella tradizione
dei medici del Medioevo ma inserendo, nello stesso tempo, caratteri
di peculiarità, scaturiti dalle sue sperimentazioni, e
confrontandosi con un altro maestro dell'arte della chirurgia,
Cristoforo Pipa del vicino casale di Paterno. Quello che possiamo
sostenere con certezza è che in questa donna, storia e leggenda,
scienza e magia si confondono e insieme contribuiscono ad alimentare
il fascino misterioso che ancora circonda la sua enigmatica figura.
Sulla scienza medica di quel tempo noi abbiamo delle vedute e dei
pregiudizi radicati. Infatti fra tutte le Arti pratiche del
Medioevo, la medicina è forse quella in cui la mano e la mente,
l'esperienza e la ragione hanno operato all'unisono per dare i
risultati più spiccati. Certo il medico è spesso soltanto un
semiciarlatano che opera sulla pubblica piazza e che si limita a
tastare il polso, ad esaminare urine, ad applicare qualche terapia
violenta (per esempio la cauterizzazione delle emorroidi con il
ferro rovente) o a prescrivere rimedi a base di erbe, di decotti e
unguenti. Ma la medicina insegnata nei grandi centri dell'Occidente
è una cosa seria. La Scuola di Salerno era allora la più
prestigiosa. Famosa nei secoli anche col nome di Hippocratica
civitas ("la città di Ippocrate"), la Scuola medica salernitana fu
un crogiuolo nel quale vennero via via fondendosi tutte le grandi
correnti del pensiero medico antico. E non ci deve meravigliare
affatto se, in una realtà culturale così aperta e vivace, si colloca
perfettamente la presenza e l'attività impensabile altrove, di un
nutrito numero di donne.